E’ nell’Ottocento che il romanzo si afferma al grande pubblico. Un secolo di grosse rivoluzioni, un secolo nel quale la questione letteraria è attraversata da una serie di correnti “figliocce” del Positivismo, come i Veristi italiani o i Naturalisti francesi.
La definitiva affermazione della borghesia sfocia in un modello sociale e comportamentale “da borghese”, ovvero nel dissimulare pubblicamente pensieri e sentimenti privati. La “facciata” di rispettabilità, prima di tutto.
Sono i primi semi del concetto di doppiezza novecentesca, più legata al problema dell’identità.
In un contesto culturale del genere, decorato di bianchi e neri, contrassegnato da poli comportamentali opposti, il “doppio” è un’entità ben distinta dall’individuo. Sebbene l’origine sia comune, il “lato cattivo” si manifesta, scindendosi, soltanto grazie a dei pretesti narrativi particolari.
La letteratura inglese offre i due esempi più noti del genere. Il primo, “Lo strano caso del dottor Jekyll e Mister Hyde”, scritto nel 1886 da Robert Louis Stevenson, racchiude in sé tutte le caratteristiche del tema del doppio. Dove Jekyll è luce, Hyde è ombra, e non esistono sovrapposizioni tra i due personaggi.
Invece, ne “Il ritratto di Dorian Gray” (1890), Oscar Wilde approccia al tema del doppio sempre nell’ottica morale, ma focalizzandosi sull’estetica e sulla spiritualità.
Il vero doppio, in questo caso, è proprio la coscienza. Il desiderio di eliminarla completamente porterà al tragico finale del romanzo. Come in Stevenson, anche in Wilde il rapporto con “l’altro sé” è profondamente antagonista, e porta all’annientamento reciproco.
Il secolo della crisi, il Novecento, propone innumerevoli spunti per il tema del doppio.
Un grande anticipatore delle tematiche novecentesche è stato Fedor Dostoevskij, che ne “Il sosia” (1846) tratteggia alla sua maniera un caso di dissociazione della personalità, quella patita da Jakov Petrovic Goljadkin, funzionario statale che si trova a vivere con occhio esterno le vicende della sua vita.
Un autore fondamentale per descrivere il difficile rapporto tra l’uomo e il proprio ego è Luigi Pirandello, drammaturgo tra i più grandi.
Nel celeberrimo “Il fu Mattia Pascal” (1904), Pirandello disegna un intreccio che, a seguito di un equivoco per il quale viene dato per morto, porta il protagonista a perdere la propria identità.
Ma presto egli si renderà conto che per la società Meis non è mai nato, Pascal è morto, egli quindi non esiste più.
Infine, la letteratura contemporanea non ha dimenticato il tema del doppio, trattandolo anche in chiave allegorica, come nel caso di Italo Calvino e del suo “Il visconte dimezzato”.